Impronte di donne negli intrecci dei destini

 



di Luigina Marone


Stamane devo andare in ospedale per un esame e, appena arrivata sul posto, mi rendo conto che fuori, in attesa di entrare, c’è una fila di persone che non mi aspettavo. Così è evidente che qualcosa è cambiato e, anche se ormai dovrei essere preparata a questo fatto, mi accorgo che ancora mi disorienta. Si entra a piccoli gruppi e a turni, dopo che l'infermiera sulla porta ha provato ad ognuno la temperatura. 


Alcune richieste fatte da chi entra risultano stonate e lo si capisce dai toni delle risposte. Mi dico "porta pazienza" anche se attraversando queste esperienze mi rendo conto, con altri occhi, di come le grandi organizzazioni travolte dal nuovo da introdurre e dal relativo nervosismo, possono produrre più problemi che soluzioni. Forse quando ne sei immersa non te ne rendi conto. 


Arriva in modo veloce il momento dell'accettazione e così mi dirigo subito dopo in radiologia. Nel tragitto ritrovo altre tracce di cambiamenti, la serranda della segretaria abbassata a suggerirmi che forse posso entrare anche senza il suo “visto”  e in fondo al corridoio una dottoressa. Mi rivolgo a lei e trovo conferma che, proprio lei, si occuperà di me. 


Inizia un po' faticosamente ad accogliermi, raccontandomi degli equivochi che la nuova organizzazione crea, che deve andare avanti e indietro, che non riesce a capire come mai la gente non ascolta ciò che gli viene detto. Mentre l’ascolto penso che, nel tragitto, pure io ho rischiato di perdermi e non sempre ho capito il senso delle risposte ricevute. Silenziosamente penso che ho corso il rischio, o la possibilità, di essere tra questa “gente", nominata proprio ora in questo suo dire.


Mentre ci muoviamo, mi colpisce il tono lamentoso della sua voce e il netto contrasto con la cura che presta, fatta di gesti e di parole delicate. Nel registrare la differenza, mi dico che forse la sua è la voce della stanchezza non accolta che rischia di produrre anche ciò che poi, professionalmente, non le corrisponde.


Non so dire il perché  di questi pensieri ...


Dopo l'esame, mentre mi rivesto, la guardo e le racconto che quando ero piccola avevo visitato più volte la radiologia di un ospedale perchè ci lavorava la fidanzata dei tempi di mio fratello e ricordo che il sapere e l'entusiasmo comunicato mentre mi raccontava del suo lavoro, mi avevano tanto affascinato al punto che, per molto tempo dopo, se qualcuno mi chiedeva cosa volevo fare da grande, rispondevo la radiologa.


Lei sorride e mi dice che ha scelto sin da piccola questo lavoro e non lo cambierebbe per niente al mondo. Mi racconta due aneddoti di questo incontro "di destino" con gli ospedali sin da bambina e di come questa precoce esperienza abbia lasciato tracce importanti nell’accoglienza dell'altro, sopratutto se piccolo, per metterlo a suo agio e fargli vivere nel miglior modo possibile l'esperienza a volte difficile di essere toccati dai macchinari anche se sono cure che possono offrire aiuto. Si sofferma sui  "trucchi" messi in atto per farli sorridere e convincerli e su quanto è riconosciuta in questo dalle colleghe che, di fronte ad un paziente bambino, le cedono ben volentieri il passo.


Ritrovo in tali motivazioni la sostanza del suo modo di fare che arriva, andando oltre allo sfogo, fatto di premure e di cura. 


Ci salutiamo e mentre mi incammino sottolineando che il reparto è davvero grande, mi dice "così mi alleno come un grillo”. Il tono di voce, per tutte e due, è cambiato! Subito dopo l'ottimismo ritrovato è raggiunto da un ombra:  "sempre che non ci sia un secondo lockdown!” Eccola la preoccupazione, di nuovo dietro l’angolo. Ero già un po' lontana mentre le dico con tutta la forza d'animo: "se ci sarà un altro fermo, allora dovremo cercare di essere forti, aiutandoci reciprocamente”. Sento che ho bisogno di dirlo, per crederci davvero e la lascio con un sorriso.


Mentre penso a queste storie di destino, mi rendo conto che sin da bambina sono stata affascinata dalle storie di mia mamma che ne raccontava tante e diverse, spesso le ripeteva e io le ascoltavo sempre con lo stesso fascino. Erano riferite alla sua storia personale e famigliare e mi hanno permesso di conoscerla nel suo destino unito così ad altre tante persone che non ho mai visto ne conosciuto personalmente, tra cui il nonno, suo papà, morto molto prima della mia nascita. 


Mi rendo piacevolmente conto che sono proprio questi intrecci di storie che coltivo nel gruppo Amazzone o Penelope, in una ricerca continua di narrazioni e di testimonianze, di vita e di professioni, che permettono sia a chi le raccoglie in un racconto che a chi le ascolta, di assaporarne il senso implicito, l'insegnamento, il calore, il dolore, l’emozione. Tracce di vita! Fatte di tante sfumature che si mescolano così, come tante verdure in un minestrone, di cui puoi sentire pian piano il calore, il gusto, e la potenza di ciò che tiene insieme fragilità e forza, colori e toni, tempeste e arcobaleni, come i fili che tessono ogni vita. 


Riguardando nella mia cartella le lettere raccolte in questi dieci anni della nostra storia di gruppo, sono grata ad ognuna delle testimoni, per il tempo dedicato e per il generoso dono, accolto sempre come prezioso. Essere un gruppo culturale permette anche questo! 


Buon decennale a noi!


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